venerdì 30 dicembre 2011

Il Piano C. #3 - Il Piano A pt.3 -


Posto con tutti i migliori auguri per il prossimo anno, dopotutto, quanto segue parla di progetti!



Finita la storia con Marta inscatolai tutto. Presi le sue foto, le nostre foto, qualche cianfrusaglia accumulata in tre anni, la mia macchina fotografica e riposi tutto nel garage di Bonnie & Clyde. 
Il Piano B durò poco perché ne ero infatuato, non innamorato. A dirla tutta pensai seriamente di poter diventare un artista e mi ci vedevo pure. Mi immaginavo in un loft a New York con le pareti piene dei miei lavori e di riviste che avevano una mia foto in copertina. Avrei partecipato ad incontri con persone famose e sarei stato uno di loro; avrei rilasciato interviste, parlato ai seminari, avrei fatto una barca di soldi e sarei stato sempre con modelle bellissime; avrei guardato la città nelle notti di pioggia da una grande vetrata sorseggiando qualcosa di forte, con una creatura bellissima a dormire nel mio letto.

Matematico.

Mi sarei trovato a gesticolare come un epilettico per farmi capire in una lingua che non avrei mai imparato; avrei abitato in una topaia con l'acqua dei rubinetti marrone, mangiando spaghetti scotti; sarei finito sul lastrico per le intercontinentali che sicuramente avrei fatto a mia madre tutte le volte in cui avrei avuto la febbre a trentasei e otto e avrei guardato dei delinquenti rubare la mia auto in una notte di pioggia sorseggiando la Cola sgasata del McDonald's, con la figlia racchia di un bulletto italoamericano a dormire nel mio letto. Che di sicuro non sarebbe stato mio ma dell'italoamericano.

No, io non rischio. Seguo il binario.

Infatti lo seguii: tornai a pieni ritmi sui libri, testa a posto, nessun innamoramento 'ché distoglie dallo studio, qualche partita a calcetto, vita mondana consistente in due uscite settimanali con birra annessa e senza fare tardi, autoerotismo spinto.
110 & lode e calcio in culo accademico. Ero giovane e laureato con tutta una vita davanti.

“e allora mi spieghi che hai?”

“in che senso?”

“nel senso che sembri uno cui hanno appena rifilato un due di picche, e so bene che non è di questo
che si tratta perché non tocchi esseri di sesso femminile da una vita.”

“grazie eh!”
Eravamo io e Luca, l'amico di sempre. Bevevamo una birra in un pub parlando del nostro futuro ed io non avevo per niente l'aria di uno che se la sentisse. Lui invece se la sentiva tantissimo. Appena laureato in giurisprudenza, nonno fondatore di uno dei più noti studi legali della città, padre avvocato in quello studio e madre mantenuta. Avrebbe svolto la pratica, superato l'esame di Stato, sarebbe stato avvocato presso lo studio che sapete, avrebbe vinto qualche miliardo facendo tredici e avrebbe moltiplicato il tutto giocando in borsa, poi si sarebbe sposato una specie di dea non troppo sveglia e i suoi figli mi avrebbero vomitato sui piedi qualche anno dopo.
Io vedevo come più rosea aspettativa l'essere investito dalla dea non troppo sveglia alla guida della Ferrari di Luca.

“scusa, siamo qui a bere, ci siamo laureati da poco e tu hai una faccia impossibile!”

“non lo so. Sarà che avevo dei ritmi stabiliti che non ho più, forse sono solo stanco oppure, non so, sempre lo stesso posto, la stessa gente, la stessa birra... prendiamo del vino?”

“a te non piace il vino.”

“Scusi, ci porta una bottiglia di vino rosso? Grazie.”

Primo bicchiere.
“è che mi sento svuotato, Luca.”

“secondo me sei solo stanco. Stai smaltendo tutto lo stress accumulato.”

“no, non è stress. Io mi metto seriamente a pensare al futuro e non è che non lo veda è che... Dio, ma è buono il vino rosso! Dicevo, non è che non lo veda, è che non mi piace quello che vedo.”

“e che vedi?”

“me dietro lo sportello di una banca che nessuno rapinerà mai.”

“senti, la stai ingigantendo. Ti fermi alla prima possibilità, una delle peggiori, e pensi che finisca tutto lì.”

“suggerimenti?”

“non saprei. Però, cavolo, punta in alto, sii ambizioso... lo stockbroker?”

“Non sono Charlie Sheen, e siamo in Italia, il nostro miglior Gordon Gekko si sporca la camicia di sugo e mangia il pollo con le mani.”

Mi è capitato spesso di trovare slancio e ispirazione in un film o un libro. Mi calo nel personaggio, voglio essere quel determinato personaggio e inizio a fare tutti i miei progetti ma poi mi guardo attorno e mi accorgo che l'ambientazione non corrisponde: dove immagino marciapiedi invasi da serpentoni di persone che si muovono in un disordine coordinato trovo vecchietti che tendono agguati ai lavoratori del comune; penso ai taxi gialli e trovo la Fiat Uno bianca; visualizzo un bel locale con tanta gente in piedi e al bancone, mentre l'impianto manda Rosanna dei Toto. Poi mi giro e vedo un bar col flipper e Toto Cutugno alla radio. Passa la voglia, vero?

Secondo bicchiere.

“il broker è un lavoro come gli altri, non serve tirare in ballo Wall Street. Devi essere più concreto, non puoi stare sempre a pensare a quello che vedi al cinema o che leggi in un libro.”

“sì, ma non è che ti abbia citato 'I Goonies', Wall Street è reale.”

“Wall Street è un film.”

“Che palle che sei. Sentiamo, tu cosa vedi nel tuo futuro? E bevi quel vino, non vorrai che finisca la bottiglia da solo?”

“cosa vedo... farò la pratica con mio padre e mi preparerò per l'esame di Stato. Poi, se sarò fortunato, lavorerò nello studio di famiglia. Magari, se mi dice culo, vincerò al totocalcio, mi affiderò a qualche broker per investire parte della vincita e sposerò una bonazza non troppo sveglia, giusto per mantenere un discreto margine di supremazia.”

Ecco. Appunto. Questo era lo sfrenato sogno di Luca.

“devo dire che ti sei sbilanciato parecchio!”

“perché, che c'è che non va?”

“ma cazzo! Si fantastica, cerca di fantasticare! Sai fantasticare?”

“tipo?”

“tipo, da bambino che sognavi di fare?”

“l'avvocato.”

Diosanto.

Terzo bicchiere.
“apriamo un locale!”

“certo... e che tipo di locale?”

“era sarcasmo quello?...”

Sì, lo era.

“... comunque, ho tutto in mente. Non troppo ampio, elegante ma non troppo, tranne due cosette da accompagnare alle cose da bere, non si mangia. Ampio bancone, eventualmente musica dal vivo ma solo eventi di un certo livello e...”

“ah, la tipica cosa all'italiana.”

Sì, era sarcasmo anche quello.

“... infatti lo apriamo in America!”

“addirittura! E... what time is it, my friend?”

“che?”

“Niente, lascia stare.”

“è perfetto, io mi occuperò del lato economico e tu di quello legale!”

“allora siamo a cavallo! Devo solo studiare un ordinamento diverso, di common law, le leggi dello Stato in cui si aprirà il locale, le leggi federali... una cazzata.”

“senti, o bevi ancora o la finiamo qui, 'ché con te sobrio non si riesce a fare un discorso serio.”

“bevo, bevo.”

“Allora, immagina, io e te in America! Potremmo essere qualsiasi persona, potremmo costruire una vita da zero e farla come vogliamo, conosceremmo persone dalla mentalità diversa, più aperta, potremmo vedere dal vivo tutte le cose che ora vediamo solo in televisione. E ci pensi alle ragazze? Già me lo vedo, tu che fai tutto il figo nel nostro locale, coccoli la clientela, offri da bere a quelle carine e te ne porti a casa una diversa ogni sera e... aspetta, è finito il vino.”

“già?”

“eh, tre bicchieri a testa.”

“Eh, ma lo abbiamo tracannato, il vino si sorseggia. Un'altra bottiglia non la reggo.”

“allora ordiniamo alla mescita.”

Quarto bicchiere.
“Luca, ma la cameriera è quella di prima?”

“sì, perché?”

“ed era così carina anche prima?”

“Non so, cioè, è quella di prima. Però... ha le tette più grandi o sbaglio?

“Non lo so, non le guardavo il seno. Dicevo, mi sembra più carina, hai visto che bel sorriso?”

“Non le guardavi il seno?”

“L'ho visto il seno, è che non ero concentrato su quello. Comunque, ci stai o no?”

“ci sto su cosa?”

“il locale in America!”

“magari vediamo di fare qualche soldo qui e poi ne parliamo...”

Ne parlammo ancora davanti al quarto bicchiere, che durò quanto i tre precedenti messi assieme. Certi progetti nascono sui tavoli dei pub, crescono di bicchiere in bicchiere e poi se ne vanno. Bah. 
Quella fu una gran bella serata: scoprii che mi piace il vino rosso; dissi a Luca di volergli bene; dissi la stessa cosa ad un paio di sconosciuti nel locale e lo dissi anche alla cameriera che ricambiò con un sorriso stupendo, poi lo dissi ad altre persone per strada ma non ricordo bene; capii che per smuovere Luca serviva qualcosa di drastico, tipo dare fuoco allo studio di famiglia e capii che di quello che avevo fatto fino ad allora poco me ne importava e che cercavo solo l'occasione per cambiare vita. Non capii che l'occasione arriva raramente e che è molto meglio prendere coraggio e fare qualcosa rischiando. 
Sul letto girava tutto, presi aria sul balcone, pensando all'idea del locale. Di sicuro, il Piano A quella sera venne ferito a morte.

Lo ammetto, pensai anche alla cameriera.

lunedì 12 dicembre 2011

Il Piano C. #2 - Il Piano A pt.2 -





Ci sarebbe molto da dire sul Piano A ma dovrei ancora parlare del Piano B e comunque io sono qui, e voi lì, per il Piano C.

Diosanto.

Ricominciamo.

Vorrei chiudere il discorso sul Piano A e del Piano B magari parlerò dopo, perché è il Piano C che mi sta a cuore.
Meglio, anche se le cose non stanno proprio così. La verità è che il Piano B è imbarazzante poiché è la prova di come io riesca a svaccare tutto quando mi innamoro, e mi innamoro spesso. Veramente, mi innamoravo spesso. Ero uno dall'innamoramento lampo. 
Ora sono sovrappensiero.
L’ho capito quella volta in cui mi trovai a passeggiare con un mio amico per una delle piazze della mia città. Era estate, faceva caldo – devo smetterla di dire cose ovvie – e noi avevamo da poco dato la maturità. Sicuramente conoscete anche voi quel brivido di timore che arriva nel momento in cui si capisce che qualcuno con un borsone pieno di calzini ti ha puntato. Non è fastidio, è ansia da prestazione: il punto è cercare di far capire che non si è interessati a tutto quello che hanno da proporti, senza essere scortesi. Almeno per me è così. Quel giorno però nessuna ansia e nemmeno borsoni pieni di calzini. C’era una pettorina, blu credo, di una qualche associazione fantasma, ed una cartellina. E c’era una ragazza bellissima, di quella bellezza pulita che già ad una cinquantina di metri – punto in cui capii che eravamo il suo bersaglio – iniziai a pensare di rilevare l’associazione fasulla per cui lavorava, strapparle la pettorina di dosso e dirle « vai, sei libera ».
Iniziò a parlare di qualcosa che non ricordo, ma che di certo non avrebbe destato l'attenzione di chiunque avesse occupato, nella scala evolutiva, una posizione un pelo più alta di quella di un idiota. Quello dell'idiota era un traguardo per me irraggiungibile. Solo in questo modo potrei descrivere uno che riceve a braccia aperte e col sorriso sulle labbra una delle fregature più elementari mai concepite. Firmare, dico, f-i-r-m-a-r-e, un foglio con cui ci si impegna a comprare un corso di inglese per oltre tre milioni delle vecchie lire ed accorgersene solo mezz'ora dopo. Traditrice, dopo tutto l'amore che le avevo dato in quella piazza assolata. Però andò bene, Dio benedica il diritto di recesso.
Le cose non andarono diversamente col passare degli anni.

Era il turno di Marta. Me ne innamorai subito, mi bastò metà del suo volto.
L'altra metà era occupata da una grande Polaroid, una macchina fotografica veramente ingombrante, non solo nel senso fisico del termine. La portava ovunque quella cosa, ma in fondo mi piaceva vederla avvolta nelle sue dita affusolate. Mi piaceva guardare lo smalto delle sue unghie mentre teneva in mano quella macchina sputa-foto. Mi piaceva il suo modo di piegarsi, inarcarsi per trovare l'inquadratura giusta. Era fotoyoga degno del campione mondiale di tetris. Col tempo compresi che non ne capiva un beneamato di fotografia e che era tutta scena, ma a me piaceva.
Marta e la sua Polaroid che le copriva il volto.

“ti spiace se ti scatto una foto?”

“f-figurati”

Ci conoscemmo così e sì, mi dispiaceva. È che non mi piacciono le foto, sono diaboliche. Comunque la metta, mi fanno girare le balle. Sembro felice? Perché ero felice? L'ho dimenticato. Forse non era tutta questa gran cosa se l'ho dimenticato. Poi mi accorgo che è un pensiero stupido e che ero felice e basta. Magari non sento ora quella felicità, ma so che lo ero perché lo ricordo e la foto mi aiuta nel ricordare. Quindi divento malinconico e mi chiedo perché cazzo ho delle foto tra le mani.
Avevo un sorriso di circostanza? Quante foto ho con sorrisi di circostanza? Provo a contarle ma so che sono tante e mi chiedo il perché di tutti questi sorrisi di circostanza. Mi sono serviti? Sono serviti a qualcuno? E soprattutto, perché perdo tempo a chiedermi queste cose con delle foto tra le mani?
Poi ci sono quelle rare foto dalle quali si evince che ero incazzato nero. Ricordo benissimo perché lo ero e nel ricordare mi incazzo di nuovo... e mi chiedo perché mi debba incazzare con delle foto tra le mani.
Marta questo non lo sapeva, e non lo sapevo nemmeno io. Non sapevo niente, nemmeno della mia abilità a svaccare tutto quando mi innamoro. Se lo avessi saputo non mi sarei iscritto ad un corso di fotografia tralasciando, anzi, quasi mollando l'università solo per poter condividere la stessa passione. 
Già, perché io mica svacco la storia d'amore, io svacco me stesso.
Marta questo non lo sapeva e mi lasciò.

“non hai più personalità, ti preferivo quando eri su quei libri che parlano di mercati e quella roba lì”

“p-prego?”

“Ma sì, eravamo una coppia stupenda, tu il figlio del tuo tempo ed io l'artista libera dagli schemi”

“Ma veramente...”

“Sì, hai ragione tu, avrei dovuto farti capire che a me piacevi così come eri. Come...”

“... come quella volta in cui mi hai dato dello sporco capitalista davanti ai tuoi amici aggiungendo che non lo sapevi come facevi a stare con uno così? Solo perché sono, ero, non lo so più nemmeno io, iscritto ad economia?”

“Ecco, te la sei tenuta per le grandi occasioni vero? Non vedevi l'ora di rinfacciarmela, vero? Guarda, mi fai schifo!”
Siamo stati insieme tre anni, io lei e la sua polaroid del cazzo.


Mi ritorna la mente a quella ragazza dalla pettorina forse blu, quella bellissima dalla bellezza pulita. Ecco, lì avrei dovuto scattare una foto. Perché a pensarci bene aveva proprio una faccia da troia.

mercoledì 21 settembre 2011

Alì, ma vaffanculo.


Appiedato.
Magari risolvere i problemi di connessione fosse semplice come cambiare una ruota bucata. Invece, no.
In compenso sto conoscendo un sacco di operatori di call center, non ricordo i nomi ma mi segno i loro numeretti identificativi, così siamo più intimi. Di tutti loro mi è piaciuto un certo Luca:

"Guardi chiami questo numero, è quello per verificare la consistenza ADSL. Ascolti il messaggio e mi dica cosa ha sentito, la richiamo tra cinque minuti."

Chiamo, ascolto il messaggio di una voce registrata che sembra di una proveniente dai paesi dell'Est Europa e aspetto la chiamata dell'amato Luca.
Driiin.

" ... allora, il messaggio diceva che in data 20 Settembre il gestore è Telecom."

"Ma oggi è 19 Settembre."

"Vero, non ci avevo pensato."

"Sicuro di aver sentito bene?"

Seguono incazzature varie che non riporto, potete immaginarvele.

Comunque, vi saluto e spero di tornare presto on line con una nuova parte del racconto!


giovedì 4 agosto 2011

Il Piano C. #1 - Il Piano A, pt.1 -



Il prossimo a fine agosto. Magari inizio settembre. Buone vacanze!



Come dicevano i Toto in Stop loving you, “time passes quickly and chances are few”,
quindi non voglio dilungarmi sul primo Piano della mia vita, anche perché nella sua elaborazione c’entro ben poco.

Già, perché il Piano A veniva plasmato in tempi non sospetti. Che ne so, andavo male in matematica? Il Piano prendeva una sua precisa piega. Mostravo buone doti nel parlare davanti a molte persone? Ecco che una nuova indicazione stradale segnava la giusta via; anche se spesso non è un vero e proprio cartello stradale, il più delle volte le indicazioni assumono la forma di un signore con i fondi di bottiglia sul naso e duro d’orecchie, affacciato al finestrino della tua auto, goffo nel non far cadere i quotidiani ripiegati sotto al braccio:

- Diritto fino alla rotatoria, la percorri tutta, esci da dove sei entrato e torni dietro. Poi, prendi la prima a destra. Dove c’è un vecchio negozio di frutta e verdura giri ancora a destra, e prosegui dritto fino al semaforo. A destra del semaforo c’è un bar, Bar Centrale mi sembra, sì, è quello con un orologiaio di fianco, ecco, a te non te ne frega niente, vai a sinistra e prosegui. Non la prima, non la seconda, non la terza, alla quarta a destra giri e prosegui. Passi il tabacchi, la pizzeria, il giornalaio e il bar e giri a destra, prosegui dritto e all’incrocio a destra.

Sì, una cosa del genere. Comunque, indicazioni a parte, il Piano A non è che viene su da solo, no… c’è qualcuno che trama alle tue spalle. Sempre loro, mamma e papà, che in questo caso suona un po’ come Bonnie & Clyde; e sono anche bravi, sapete? Talmente bravi che il Piano A in origine non è un piano, è carta bianca, con dei piccolissimi divieti e postille: non frequentare determinati soggetti; non leggere determinate cose, vedere determinati films, ascoltare determinata musica; scegli la scuola che ti pare, possibilmente non quella, né quella lì, né quella là.
Anche per voi è stato così, vero? I Piani A si somigliano un po’ tutti, non c’è da disperarsi, è la vita.
Quanto al mio, ero sul rettilineo a trecento all'ora, e ad una tale andatura non pensi che la curva arrivi presto, non così presto. Mi ci avevano buttato loro a quella velocità, sì, Bonnie & Clyde, ed io ero stato bravissimo a gestire la situazione: avevo fatto tutto il liceo classico con ottimi voti, buon inserimento tra i compagni, qualche nota che ti rende figo, innumerevoli sogni erotici su tutte le ragazze più carine della scuola, alcuni dei quali realizzati (ricordate Sabrina?), e innumerevoli figure di merda collezionate in cinque anni, fino al giorno in cui,  lanciato a razzo, arriva il curvone a gomito; mi piacerebbe dire che è arrivato all’improvviso, che ero distratto, ma non è così. Non avevo mai pensato seriamente a cosa diavolo avrei dovuto fare della mia vita dopo le superiori, e sì che era un tassello importantissimo del Piano A.
Bonnie mi vedeva ad architettura, psicologia e medicina, specializzazione: ginecologia. Clyde era un maschio, puntava alla conservazione della specie: giurisprudenza, “all in”. Io non vedevo. Avrei aperto un negozio di dischi, ho sempre adorato la musica, tutta la musica. Tutta poi, non consideravo la musica leggera italiana, la taranta e quella roba lì, il country, la musica impegnata di gente che scrive bene, suona male e canta peggio ma che “hey, non provare a toccare quelli lì ché ci fai la figura dell’ignorante”; ci sarebbe dell’altro, ma col tempo sono diventato molto più elastico. Avrei anche aperto un negozio di scarpe, da donna. Immaginavo scaffali e piedistalli con calzature dai tacchi di ogni forma e misura – minimo dodici – e donne dalle gambe affusolate che sfilavano col loro prossimo acquisto ai piedi; ma mi resi subito conto che l’idea era al confine col film hard dei miei sogni e che non ero proprio io a volerlo ma il feticista che era – è – in me. Quindi, dopo il diploma di maturità, considerai questi elementi: lavoro dietro una scrivania, splendidamente remunerato e che non prevedesse il salvare vite umane o evitare loro la galera. Era come voler costruire un castello con le carte da gioco e ritrovarsi a fare la V rovesciata con due sole di esse.
Scelsi economia e commercio.
Vorrei potermi inginocchiare come John Belushi in The Blues Brothers e gridare in lacrime: “Ero rimasto senza benzina. Avevo una gomma a terra. Non avevo i soldi per prendere il taxi. La tintoria non mi aveva portato il tight. C'era il funerale di mia madre! Era crollata la casa! C'è stato un terremoto! Una tremenda inondazione! Le cavallette! Non è stata colpa mia! Lo giuro su Dio!”.
Era stata colpa mia: ‘fanculo il Piano A.


(continua…) 

mercoledì 27 luglio 2011

Il Piano C. #Intro


Premessa

Piccolo esperimento, a puntate. La storia è una, ed uno il protagonista, ma ho in mente di suddividerla in modo da rendere fruibile ogni parte postata, forse non proprio la parte iniziale, ma più in là ogni singolo racconto breve farà parte dell'insieme. Immagino di dover dare almeno qualche indicazione, ma già dall'intro si capirà. 



Molti sono i modi di dire sulla vita, o sulla fortuna, e spesso lasciano intendere che non sarà proprio una passeggiata. Ci sono persone nate con la camicia, alcuni sotto una cattiva stella; altri sono costretti ad attaccare l’asino dove vuole il padrone, magari facendo buon viso a cattivo gioco; la si può buttare sul culinario con padelle, braci e rospi ingoiati, oppure fare come Icaro e lanciarsi, ma nel buio, per vedere se si atterra in piedi.
Ognuno ha il suo preferito ma la verità è che le cose accadono e basta. Brutale, ma è così. Ciò che fa la differenza è il trovarsi preparati o meno, e l’unico modo per avvicinarsi all’essere preparati è avere un piano. Averlo non significa pensare di voler fare qualcosa, per quello son buoni tutti. No, avere un piano significa architettare nei dettagli il modo per raggiungere quel qualcosa e, importante, valutare le possibilità di fallimento, giusto per non farsi trovare impreparati. Però, quello che fa di un piano un gran piano è l’alternativa, il Piano B. Le persone scaltre hanno sempre un Piano B, sia esso per la fuga, per ritentare o per ricominciare con un nuovo obiettivo.
Io sto sperimentando il Piano C. Questo non fa di me una sorta di saggio o grande uomo pronto a tutto, anzi, semplicemente un grande idiota che ha sbagliato clamorosamente i calcoli per i precedenti due Piani. Uno sfigato, insomma.
Le cose iniziarono a cambiare quando, a quindici anni, mi ritrovai a riflettere su un discorso fatto con mio padre sette anni prima. Eravamo in auto diretti al cinema per vedere Vacanze di Natale, scelta che rese prevedibile l’assenza di mia madre, e chiesi per l’ennesima volta il perché del mio nome inglese. Fino ad allora se l’erano cavata buttandosi sul vago, oppure puntando sui tempi moderni, le solite cose cui un bambino non avrebbe dato importanza ma in quel contesto, due uomini diretti al cinema, era necessario dire la verità. Ora so che sarebbe bastata una mezza verità ma il punto è che a lui la genesi della scelta del mio nome proprio non andava. Marco Della Torre, mio padre, è sempre stata una persona semplice, ottima nella professione di avvocato e dotata di un’intelligenza vivace, tutte qualità puntualmente scomparse in presenza della moglie, mia madre. Lei è Rita, di professione fa la professoressa di Filosofia, un’intellettualoide femminista, come amava descriverla mia nonna paterna, nonché sogno erotico dei ragazzi del Liceo e non solo (questo era mio nonno, sempre paterno). Nonostante lei lo ami molto, col tempo ho compreso che papà è sempre uscito da quel rapporto talmente sminuito e sgualcito da sembrare un autentico coglione. Per questo, alla mia domanda, in quel dicembre 1983, sputò il rospo tenendo gli occhi fissi sulla strada e le mani salde sul volante, con un tono di voce uniforme e calmo:

- Hai presente i Beatles, il gruppo che tanto piace a tua madre? Il bassista ed anche cantante di quel gruppo si chiama Paul McCartney e a tua madre esplodevano gli ormoni dal cu… dalle orecchie ogni volta che lo vedeva, o che solo sentiva il suo nome. Quella gran donna di tua madre mi chiamava Paul quando facevamo l’amore e sai tu come mi chiamo? Marco! Mi chiamo Marco, Cristo. –

Anche quella volta non capii, specie quel “fare l’amore”. All’epoca facevo molte cose: i compiti, facevo i modellini con le costruzioni, i disegni, la cacca; il “fare” era legato a qualcosa che veniva su dal nulla, e proprio non capivo come si faceva a fare –costruire, nella mia testa – l’amore. Comunque, tornando a quel sabato di dicembre, mi ci vollero sette anni e l’ingresso a pieno titolo nel mondo della sessualità per ricollegare il tutto e comprendere che mi venne dato il nome di un tipo che semplicemente faceva arrapare la mamma. Dio santo! Pronunci il nome di tuo figlio e ti rimanda all’immagine di te che vieni presa da quel tipo nei camerini, dieci minuti prima del concerto. Mia madre. Da quel giorno non riuscii più a vederla come tale. Non solo, ce l’avevo a morte con lei per avermelo rovinato, quel giorno.
Venti luglio 1990, stavo con Sabrina, una compagna di classe che avevo corteggiato dal primo giorno di scuola. Lei sedeva davanti al mio banco ed indossava sempre dei pantaloni elasticizzati che mettevano in risalto le sue forme. Avrei potuto leggere il futuro su quel sedere, o scoprire nuove formule e teoremi sconosciuti all’uomo, ma mi limitavo ad assumere un’espressione da maniaco ritardato che non aveva mai visto un bel didietro in vita sua, e tecnicamente non lo avevo visto, almeno non come avrei voluto.
In quel famoso giorno avevamo appena finito di “fare” l’amore per la prima volta, la nostra prima volta – di quello ero sicuro, come ero sicuro che fosse la mia prima volta, di lei no, non ero sicuro affatto – e ce ne stavamo nudi sul letto di camera sua, con i genitori molto lontani da casa; pensavo a quanto accaduto, non al significato, no,  ripercorrevo mentalmente tutte le immagini della nostra performance e la cosa mi appassionava così tanto da mantenermi in costante erezione. Sabrina se ne accorse e senza mezze misure mi fece intendere che non era il caso di sprecare una simile occasione. Si mise sopra di me e disse:

- Non so cosa mi prende, ma tu mi fai esplodere gli ormoni… -

Ancora quei maledetti ormoni che esplodono, la stessa espressione usata da mio padre. Improvvisamente non avevo più Sabrina sopra di me e non c’erano i suoi lunghi capelli neri a solleticarmi la pelle, non ero nemmeno più lì, su quel letto. Ero in un cinema per adulti, unico in sala con un pacco di pop-corn fumanti e una Coca grande mentre sullo schermo proiettavano Paul McCartney che si ingroppava mia madre.
Ero il Titanic che affondava a picco, il ramo di un salice piangente, il pendolo di un orologio da muro, ma senza oscillazioni. Non ci fu modo di riprendermi.
Cara mamma: ‘fanculo te e Paul McCartney. E sì, ‘fanculo anche a quello smidollato di mio padre.

Questo col Piano C non c'entra nulla, o forse è partito tutto da lì, non so. Di sicuro non esisterebbe un Piano C senza A e B. Quindi è meglio partire con ordine.



                                                                                                                                                (continua…)

venerdì 1 luglio 2011

Poco alla volta.






Non è un racconto.
Sì, di nuovo un bel ritardo nell'aggiornare il blog.
Avete presente il foglio bianco, che ormai non è più un foglio ed è di un bianco talmente luminoso da divenire ingombrante? Ecco sì, proprio lui. Beh, ultimamente mi dà del filo da torcere, non tanto a riempirlo, ma a farmelo piacere imbrattato di nero.
Mancanza di tempo per scrivere sereno a parte, ché è vero ma non è una scusa che tiene, sto cercando di cambiare qualcosa nel modo di scrivere, nel tipo di storie da raccontare e sono un pò ad un punto morto. Vorrei cambiare qualcosa ma devo capire bene come. Appena riprenderò a rivedermi in quello che scrivo, lo posterò con molto piacere.

giovedì 12 maggio 2011

Il Guru




“Tu non c’entri. Il problema sono io e non meriti di stare con una come me”.

Banale, come gli spaghetti aglio, olio e peperoncino, che però sono efficaci quando la fame ti stropiccia lo stomaco ed hai la necessità di distenderlo. Un pò come quando l’amore finisce ed hai bisogno di quella libertà oleosa e piccante, come gli spaghetti.

Giorgio con quella frase capì che ad essere mollati non ci si abitua mai e pensò che la vita è troppo furba per poter star sempre in guardia. Così decise di diventare un abitudinario.
Se sei insoddisfatto l’abitudine è monotonia, costrizione, ma se i tuoi giorni ti piacciono allora diventa una roccaforte in cui sentirti leggero, e perfino la grattata di sedere appena svegli smette di essere meccanica, diventando la prospettiva di un piacere che sai arriverà.
A Giorgio piaceva darsi una grattatina al sedere appena sveglio e, come tante altre piccole cose, sapeva che sarebbe arrivata puntuale, cosa che lo rendeva sereno.
Però non era un tipo dalle vedute ristrette.

- Vedi, l’abitudine, a differenza della regola, non è un concetto rigido ma elastico.

- Scusa, io non vedo molta differenza. Col tempo, l’abitudine si cristallizza al punto da divenire regola.

Questo era Matteo, un vecchio compagno di università di Giorgio.

- Ora ti spiego.

- Sì, così magari ci capisco qualcosa…

- Che giorno è oggi?

- Lunedì.

- Ecco, e cosa faccio di solito il lunedì sera?

- Guardi un film in dvd.

- Bravo. Ora, invece, sono seduto con te a parlare e a bere.

- Eh, ma noi lo facciamo spesso!

- Appunto! Se vedere il film in dvd fosse una regola, ora non sarei qui, ma è un’abitudine sulla quale si sovrappone l’altra abitudine del bere qualcosa insieme a fine giornata. Vedi che è un concetto elastico?

- Mmm, sì…

Matteo non era convinto. Decise quindi di rendere scivoloso il terreno, si avvicinò a Giorgio stringendo la testa tra le spalle e, sorridendo:

- E con le donne? Da quando sei stato mollato non hai avuto una relazione che sia durata oltre una notte… anche questa è abitudine? Oppure è una regola? Magari per non star male.

Giorgio sorseggiò la sua birra fissando il punto indefinito nel vuoto che finiva sul seno della cameriera a qualche metro dal loro tavolo. Rispose a testa bassa, guardandosi i polpastrelli mentre cercava di asciugarli dall’acqua che bagnava il bicchiere.

- Un’abitudine è una scelta tua, o forse è lei che sceglie te, non saprei. Una cosa del genere non può essere lasciata all’arbitrio di un’altra persona, non sarebbe più un’abitudine. Una relazione stabile può essere fatta di abitudini ma non è abitudine.

Non aveva risposto, lui lo sapeva. Matteo lo sapeva, ma non disse nulla. Pensò che gli amici devono rompere solo se l’altro sta male, e in questo caso non era così.

- Quindi?

- Quindi cosa?

- Quindi l’amore non rientra nel tuo concetto elastico di abitudine, giusto?

- Non lo so, ci devo riflettere. Magari diventerò un guru di questa filosofia, scriverò un libro, venderò milioni di copie e ti offrirò da bere.

- Taccagno.

La seratà finì, come le altre, disintossicandosi dal giorno passato, ricaricandosi per quello successivo.
Camminando verso casa Giorgio pensò al da farsi: avrebbe sorseggiato qualcosa di forte fumando una sigaretta affacciato al balcone, poi si sarebbe preparato per la notte e avrebbe letto un libro aspettando il sonno.
Sull’immagine di lui a casa svoltò l’angolo, scontrandosi con forza con una ragazza che camminava a passo svelto. Si ritrovarono a terra, lui sopra di lei: banale.
Sentiva il seno morbido sul suo petto mentre veniva attirato dai lunghi capelli neri.
Istintivamente iniziò ad attorcigliarne una ciocca intorno alle sue dita, sorridendo. Anche lei sorrideva, di imbarazzo. Fu Giorgio a rompere il silenzio.

- Sai, potrei abituarmi a questo.

Banale, come un piatto di spaghetti aglio, olio e peperoncino. Però, con quella frase pensò che ci aveva veramente preso, davanti a quella birra, che veramente l’amore non è questione di abitudine, ma attitudine.

mercoledì 13 aprile 2011

Improvvisazione





Mario prende appunti.
Perso nelle strade di Casablanca annota espressioni e parole. Prova ad acciuffare Humphrey che è sempre troppo avanti e allora si guarda allo specchio sfoderando il suo sguardo definitivo, da piacione: quello con cui fulminerà Sara più o meno tra quattro ore, ad un aperitivo figo.
Studia ancora un pò quel modo di fumare, di sorseggiare, immaginando i calici col vino e gli occhi di Sara che aspettano solo di essere conquistati.
Lei, invece, ha preso dal cassetto il sorriso delle grandi occasioni e lo indossa come un’arma di distruzione di massa, vuole la corte, e corte sia.
Per Mario gli esperti consigliano atteggiamento fiero, buona conversazione, simpatia e un modulo 4-4-2.
Sara non ha bisogno di esperti, è donna.

“non fargli capire che ti piace, su, per una volta, e tiratela un po’… no, non guardarlo così… e leva quella mano dai capelli, no, non ti sporgere troppo”

“ecco, stai facendo il simpatico, no, lo sanno tutti che poi diventi l’amico… su, fai l’uomo d’un pezzo, era Humphrey Bogart, non Woody Allen… e smettila di guardarle le labbra ché poi ti distrai e dici stronzate”

Intanto un’ape disegna in aria la mappa perfetta che conduce ai segreti di Sara, ma Mario non la coglie e sceglie la via lunga, iniziando dal bacio. Lei non se lo aspetta e per un attimo pensa che a quel bacio lui doveva arrivarci dopo dodici fatiche, per un attimo però… il resto è un bicchiere di vino colorato di rossetto.