lunedì 25 giugno 2007

Alla Luce Della Luna




Premessa:
Mi scuso con Andrea per l'attesa, ma non ho il tempo nemmeno di pensare, quindi, nel frattempo che scrivo il "suo" raccontino, posto qualcosa che ho scritto tempo fa. Si tratta di un racconto horror che ho fatto come esercizio alla scuola internazionale di comics. Raccontino che è stato corretto da uno scrittore di libri horror, Francesco Dimitri (se non ricordo male), trovate il suo blog qui di fianco, nella colonnina blog e siti. La correzione riguardava solo l'uso di qualche vocabolo, quindi nulla sulla storia in sé. Spero che vi piaccia, anche se è un pò lungo, abbiate pazienza!





È qui, è in casa mia.
Mi si gonfiano gli occhi di lacrime ed un nodo mi soffoca fino a perdere il controllo di me, se penso al suo volto, al fetore del suo alito immondo, al suo sorriso senza gioia, inumano.
Scrivo queste righe riportando tutti i miei pensieri così come si sono presentati in questa maledetta notte, come se li stessi vivendo ora, per convincermi che non sono pazzo. Ma se non lo sono, allora l’unica vera realtà è l’orrore che mi perseguita, e questo foglio servirà solo a far sapere cosa è successo.
È notte, mi rigiro nel letto in attesa di prendere sonno, ma la luce pura e fresca della luna piena inonda la mia camera regalandomi un soffio di brio, un’inconscia voglia di alzarmi e fare qualcosa. Anche se dispongo di un letto matrimoniale, solitamente dormo occupando un singolo lato, retaggio infantile di quando avevo a disposizione solamente un letto ad una piazza. Mi trovo sul lato destro del mio corpo, guardando la restante parte vuota del materasso, quando ad un tratto una strana sensazione mi ha assale: sono a disagio, mi sento quasi soffocare dall’impressione che lo spazio vuoto alle mie spalle non sia più tale. Aggrotto le sopracciglia, cercando di scrollarmi di dosso l’assurdo pensiero, ma il mio corpo non è di quest’avviso. Sono teso, una corda di violino che ha fatto qualche giro di troppo, le mani sudaticce, e sempre quella sensazione: c’è qualcosa dietro di me.
Rimango un po’ immobile a guardare la parete di fronte, a chiedermi il motivo di tanto disagio.
Cerco di riflettere. Di notte, quando sono solo e potenzialmente indifeso una strana inquietudine mi assale: l’angolo buio in fondo al corridoio potrebbe celare chissà quale mostro, il rumore del rubinetto che gocciola potrebbe essere del tutto casuale, ma potrebbe anche essere stato svitato da qualcuno, quel tanto da far uscire una goccia, una singola goccia ripetuta nel tempo capace di farmi impazzire. Queste e tante altre paure mi rapiscono di notte e mi portano in un mondo di uomini neri, streghe ed esseri che infestano il mio sonno. Ma so che sono suggestioni di un uomo pavido e sensibile. Ora, però, è diverso. La sensazione di avere chissà cosa alle mie spalle è troppo viva, troppo reale, troppo terrificante. Non riesco a muovermi, sono paralizzato dall’idea di girarmi e controllare, perché? Dopotutto è uno scherzo della mia immaginazione, e allora perché questa reazione sproporzionata? Perché so che non è una semplice invenzione della mia mente, lo sento, non sono solo. Penso e ripenso, passa solo un attimo di tempo ma l’angoscia è già troppa.
Il cuore inizia una danza tribale, ma senza troppa fretta, è un crescendo delicato, quasi assordante nel suo incessante battere silenzioso.
Dio, sono impotente, mi manca l’aria, vorrei piangere e liberarmi di questo peso, di questa sensazione, mentre l’ultima parte razionale di me mi dice che sto esagerando, un contrasto di opinioni nella mia mente. Basta.
Decido di fare l’uomo, in fondo non c’e nessuno, non può esserci, è troppo tempo che sono concentrato su quello che accade alle mie spalle, se ci fosse qualcuno avrebbe fatto un qualche rumore, un respiro, un piccolo, impercettibile movimento che nella totale assenza di rumori della notte spiccherebbe come un tuono. No, non c’è nessuno, ora mi giro e presto riderò della mia idiozia. Vado per girarmi, un quarto di giro, lentamente, il cuore ormai dimentica che sono un essere umano ed inizia a pompare forte, troppo. Sento il suo battere nelle orecchie, la lingua è secca, vorrei chiudere gli occhi ma il terrore li tiene spalancati come una finestra in un pomeriggio d’agosto. Sono un idiota, ma non posso comandare queste manifestazioni, quindi le subisco passivamente nella speranza che presto andrà meglio. Arrivato a metà giro, il mio corpo si ribella, non ce la faccio. Il cuore ha spinto troppo e chiede, esausto, una tregua, un po’ di respiro. L’accontento.
Sono sempre sul fianco, alla paura inizia a subentrare il nervosismo, la rabbia verso me stesso per essere un inutile fifone, ma quel sottile terrore non mi abbandona. Ho sempre la sensazione viva di essere osservato, di non essere solo in questa stanza, che qualcuno o qualcosa si trovi alle mie spalle ed attenda, Dio solo sa perché. Di nuovo la mia parte razionale prova a parlarmi: ammesso pure che ci sia qualcuno, non può essere un ladro, lui ruberebbe qualcosa e se ne andrebbe silenzioso nella notte, appagato del suo bottino. Un maniaco? È possibile, ma se avesse voluto uccidermi lo avrebbe già fatto, e poi, qualsiasi essere umano avrebbe fatto un minimo rumore, un bisbiglio, un soffio di fiato nel vuoto. Già, qualsiasi essere umano…e se non lo fosse? Non spreco un solo attimo a considerare quest’ipotesi, impossibile. I-m-p-o-s-s-i-b-i-l-e, me lo ripeto bene a mente, fino a convincermi del tutto, ma il fatto che debba ripetermelo la dice lunga sull’angoscia in cui sono sprofondato. Provo a chiudere gli occhi, dormire, ho bisogno di dormire.
Li chiudo, inspiro lentamente dal naso ed espiro dalla bocca, devo far scendere i battiti.
Sto per calmarmi, quando accade: nel silenzio innaturale, un soffio, un sospirare lento ed agghiacciante proprio dietro di me, a dieci centimetri, forse venti. Quel sibilo debole e sinistro, inumano, spettrale, mi gela il sangue nelle vene. È un sospirare simile a quello di chi esala l’ultimo respiro, ma più tetro, senza tenerezza, senza la pietà di chi muore, un unico terrificante respiro. Stringo forte le lenzuola tra le dita, tutta la calma che avevo faticosamente guadagnato è morta. Di nuovo il cuore spinge, sempre più forte, il respiro affannato, gli occhi smisuratamente aperti. C’è qualcuno. Gli do le spalle, sono inerme, questa sensazione di essere totalmente allo scoperto mi dilania, ho paura, ho troppa paura.
È tornato il silenzio, ma non sono solo, dietro di me c’è qualcosa che mi vuole, ora lo so.
Non posso urlare, non c’è nessuno oltre all’essere dietro di me. Che fare, che fare?
Ingoio saliva mentre il sudore mi gela una guancia al suo passaggio, si posa sul mento e cade suicida sul letto.
Il terrore mi dona più coraggio della ragione: mi volto.
Mi giro velocemente, da incosciente, senza assaporare lo spostamento, e mi ritrovo d’un tratto sul lato sinistro.
Prego il Signore di aiutarmi nel descrivere ciò che ho visto.
In ginocchio, illuminata solo dalla luce della luna piena, una vecchia mi fissa con aria da folle. Il suo volto sporge in avanti, leggermente inclinato da un lato e molto, troppo vicino al mio.
Secca, esile, i capelli lunghi e grigi scendono disordinati lungo gli zigomi ossuti. Ha le mani raccolte all’altezza del seno. In un attimo percepisco le dita ossute, le macchie scure, le unghie lunghe e sporche. Ho un sussulto nel vedere i suoi occhi: escono quasi dalle orbite, sono grandi e tondi, mi fissano senza espressione come quelli di uno squalo. L’iride grigio chiaro, alla luce della luna, li fa apparire quasi tutti bianchi, inumani. Ad accompagnare quello sguardo raccapricciante, un sorriso folle, i denti neri dalle forme irregolari e l’alito acre. Ruota la testa prima a destra e poi a sinistra, senza emettere un suono, sempre con quegli occhi che mi fissano e quel sorriso immondo.
Urlo, ma nulla esce dalla mia bocca se non un sibilo, i miei occhi si spalancano tanto quanto i suoi alla vista di quell’orrore. Mi giro di scatto, cerco di arrivare dall’altra parte del letto ma sono goffo, scoordinato, mi muovo come in un campo di sapone. Finalmente riesco a buttarmi per terra, dal lato opposto a lei. È sempre lì, a fissarmi ruotando la testa ed emettendo versi deboli.
Sono incollato alla parete quando in un attimo di lucida follia, completamente dettata dal terrore e dall’inconscia conoscenza di ciò che sta per accadermi, prendo un foglio ed una penna dalla scrivania al mio fianco ed inizio a scrivere…
È forse passata un’ora da quando ho la penna in mano, spero di aver reso almeno la metà dell’angoscia e della paura che mi hanno rapito. Ora è tempo di smettere, la vecchia si è alzata, sta facendo il giro del letto verso di me. Sembra che fluttui, non dà l’impressione di camminare. La guardo per l’ultimo istante prima di smettere di scrivere, mentre ruota il collo e mi osserva con occhi senza vita ed il sorriso gelido. Ho cercato di chiedermi chi sia, perché è qui, come ha fatto ad arrivarci, cosa voglia da me. Ma non importa, non più, sono esausto dal terrore. Ora poserò la penna, chiuderò gli occhi e mi metterò a piangere, sperando che tutto questo sia solo un incubo.

lunedì 18 giugno 2007

01- Alfredo- Sognando l'arena.




Premessa: per chi non avesse letto il post precedente, questo è il primo di una serie di raccontini dedicati ad alcuni dei miei amici, quindi molti riferimenti, nonché le espressioni dialettali potranno essere capiti solo da questi!


È un nuovo giorno.
Un giorno nuovo in un mondo lontano, antico.
Un mondo senza reality show, senza la borsa, le veline, le guerre mondiali, il fantacalcio, gli operatori telefonici, i divi stagionali, Briatore e Rafaello Tonon, i profilattici stretti, le suonerie polifoniche ad alto volume e…vabbé, ci siamo capiti: antica Roma.
Un posto dove la gente ha sete, sete di sangue.
Urla, impreca, esulta per una manciata di uomini coraggiosi, uomini duri, uomini letali: i gladiatori.
Alfredo è un gladiatore, il più temuto ed il più amato dalla folla, specialmente da quella signora con la tunica leopardata, di vero leopardo, che ammicca e fa l’occhiolino dagli spalti del Colosseo.
Oggi è il giorno.
Il giorno in cui Alfredo sazierà la sete di sangue della gente, il giorno in cui dimostrerà a tutti di non avere rivali, il giorno dove sarà ad un passo dagli dei, e forse il giorno in cui strapperà a morsi la tunica leopardata della signora un po’ strappona sugli spalti del Colosseo.
Il sole ha da poco iniziato la sua opera di rappresaglia verso ogni porzione di buio che si aggrappa stretta alle pietre, ed Alfredo è alla finestra.
Il suo corpo nudo, scolpito, tanto vicino alla perfezione, con i muscoli che urlano al vento con la forza di un uragano, sa ancora di sesso.
Si gira sorridente verso la donna che ha occupato il suo letto per una notte e la sveglia con una sola, arcana, parola:
“Spoooooorcaaaaaaaa!!!”
Lei sa, e si defila senza troppe cerimonie.
È il momento.
Dietro il cancello, l’arena è solo un posto polveroso tra le urla della gente, un posto che sa di sudore, sangue e veleno.
La luce filtra dalle fessure della porta di legno mostrando miliardi di particelle infinitesimali che nuotano nell’aria, e il popolo è unito in un solo coro:
“Al-fre-do, Al-fre-do, “Al-fre-do, Al-fre-do, I-spa-ni-co”…haem, no, quello è un altro.
Si spalancano le porte, la luce lo acceca e lo riempie di una carica esplosiva, sente ogni fibra vibrare come le corde di una cetra, un passo ed è nell’arena.
Uomini, donne, specialmente le donne, urlano e si dimenano, mentre prendono bibite e cibarie varie da Michele e Giuseppe, che, tra l’altro, sono amici di Alfredo.
Ma il nostro uomo non si cura di tutto ciò, la sua attenzione è tutta per l’avversario: Tidus.
Un omone di due metri di altezza, per due metri di larghezza, per due metri di profondità: un cubo, ma molto più incazzoso.
I due sono ad un passo l’uno dall’altro, Tidus spezza il silenzio:
“ Sei solo un moscerino”
Alfredo sorride beffardo:
“ Si ruoss? E cakch’ gliù cazz’…”
Tidus sembra non capire, ma non gli importa, quel che vuole è abbattere il suo rivale, solleva la pesante ascia e la scaglia con tutta la forza sul nostro eroe.
Alfredo, con un sottile gioco di anca, schiva il colpo, si stende in una spaccata frontale (si, proprio quella a palle per terra) e con l’avidità di un avvoltoio fionda la sua mano sui gioielli di famiglia di tidus.
L’urlo è agghiacciante, i signori vomitano, i bambini piangono, le signore, invece, esultano in un inno femminista, tutte tranne il troione dalla tunica leopardata in fila sul Colosseo, lei no, lei ha perso una possibilità.
Con i gingilli in mano Alfredo si gira verso l’imperatore:
“è tutto qui quello che sapete fare?!”
Il sovrano sorride:
“che si sciolgano i leoni!”
Due belve feroci fanno il loro ingresso nell’arena.
La folla teme per il peggio, non potrà mai farcela, non contro due fiere.
Ma Alfredo è fermo come un blocco di granito, lo sguardo intenso, il sorrisetto malizioso ed i gingilli di Tidus in mano.
Prima che i leoni si rendano conto della sua presenza, il gladiatore corre verso il cancello.
Non è una fuga, no, si va ad armare.
Il silenzio è turbato da un ruggito, un altro, ed un altro, sempre più violento.
No, non sono i leoni, no.
È Alfredo, che sta scatenando tutti i cavalli della sua Alfa Romeo Spider rossa fiammante.
Duemila di cilindrata, scappottata, aggressiva e con i carburatori a trombetta che provocano una lieve ma piacevole vibrazione alle parti intime delle signore sugli spalti, tutte tranne il puttanone leopardato del Colosseo, ormai quella non sente più niente.
Scende in campo sgommando, fa la doppietta con la frizione ed investe il primo leone, il quale si ritira sconfitto.
“Acchiappt a chiss’!!!” urla.
Per il secondo non c’è scampo, Alfredo gli si affianca, lo afferra per la coda ed inizia a trascinarlo per l’arena, per la gioia di grandi e piccini.
“I t’ l’era ritt’, po tu fa nù poc com’ cazz t par’!”
Lo scontro è terminato, l’eroe ha vinto.
Tornato nella sua dimora il corpo è ancora gonfio di adrenalina, i muscoli sono un tripudio di dolori e piccoli acciacchi, ma Alfredo ha il sapore della vittoria sulle labbra.
Pensa al modo in cui vorrebbe festeggiare, una birra corretta con la vodka e abbuffata di sesso, quello sporco che ti strema e fa un po’ male.
Improvvisamente sente la voce della passione dietro di lui:
“ciao, sporco!”
è la smandrappata dal manto di leopardo…lo guarda, lui inorridisce.
“vieni qui, spooorco, non mi riconosci? Sono la Isola, la prof del liceo!”
“AAAAAARRRRRGGGGHHHH!!!”

martedì 12 giugno 2007

Cose che mi frullano per il culo





Premessa:
la cosa interesserà sicuramente solo i miei amici, diciamo quelli “stretti”.

Allora, è da qualche giorno che penso ad un esperimento: fare una serie di raccontini, uno per ogni mio amico. Sinceramente la cosa mi stimola molto e so che mi divertirà.
Ovviamente non posso coinvolgere tutte le persone che conosco, e sicuramente non voglio nemmeno. La cosa avrà come oggetto gli amici “intimi” quelli con i quali sono riuscito a stringere un rapporto particolare e ai quali voglio bene in modo altrettanto particolare.
Diciamo che la cosa la gestirò come mi pare e piace, però se qualcuna di queste persone volesse partecipare dandomi uno spunto, tipo dirmi che vuole essere rappresentato come un pirata, che ben venga! Non escludo che possa prendere in considerazione la mia ragazza, che ovviamente non è un amico, ma molto di più, però mi piacerebbe includerla, e dato che nel blog faccio un po’ come a casa mia…
I vari soggettoni saranno trattati in ordine alfabetico considerando il nome, questo è l’elenco:

Alfredo –“ Il Coletta, Lo Zio, L’Avvocato” -

Andrea C. – “Pluto, Kuntz” -

Andrea R – “Dondi, Dondorodon, “

Carmine - “Mincuccio” -

Erika - “ La Sora” –

Francesco -“Il fratello del guelfo” -

Iuri - “ Iurio” -

Luca - “ Il Maccarone” -

Marco - “ Il Guelfo” -

Marco - “ Sax, Misha, Frank, Pasquale, Gliù Zipp”

Mauro - “Il Maùro, Pgià”

Simone - “ El Toro” -

Valentino - “Balenco, Balenco di merda, Sistemalimbico” –

Mah, vediamo che ne pensate!!!

martedì 5 giugno 2007

Un giorno di sartriana follia




Mettiamo il caso.
Mettiamo il caso che questa mattina mi sia svegliato ed abbia posato a terra il piede sbagliato.
Mettiamo che sia una mattinata che porti ancora il sapore di fiele di una nottata sessualmente impotente, cerebralmente avvilente e ontologicamente disarmante.
Mettiamo che il nero caffé abbia navigato al contrario l’oscuro tunnel, spinto da un vento di reflusso gastroesofageo.
Mettiamo che il sole, tondo e giallissimo, alto nel cielo si diverta a torturare noi povere anime terrestri con dardi di fuoco e miraggi da Fata Morgana.
Ciò delinea un quadro abbastanza chiaro, una fotografia istantanea del reale, che appare così com’è: assurdo.
Sapete, sono quaranta minuti che ci rifletto, chiuso in questo fiume metallico.
Osservo il serpentone di lamiere e gomma che si snoda infinito:
La macchina che mi precede è rossa, piccola ma bella pulita, tutta luccicante.
Di fianco ha una vettura nera, ma sporca, col terriccio marrone che da una brutta sensazione di sudicio.
Butto l’occhio più in là:
Bianca, verde, blu, di nuovo rossa, ma più tenue, ancora bianca, bianco sporco che sembra grigio, marrone…oddìo, marrone, nera, ancora nera, viola, champagne, azzurra…e via fino alla fine del traffico.
Mi uccide il pensiero che quelle che per me sono delle macchinine colorate, in realtà siano dei microcosmi a quattro ruote.
Ogni auto ha un conducente, forse uno o più passeggeri, ogni mente è un piccolo laboratorio fatto di attimi, di passato, presente e onirici futuri.
Ogni passeggero parla, ascolta, prova sentimenti, piange e ride, dorme e si sveglia, mangia e caga, va e viene.
Ed io non ne so nulla.
Poi penso: “cazzo, anche per loro sono solo un omino in una macchina bianca”.
La cosa non mi piace, loro sono fungibili per me, ma anche io per loro.
No, proprio non mi piace.
Riflettiamo: ogni conducente ha un personalissimo mondo, anche io ho il mio.
Ogni conducente pensa che quel suo personalissimo mondo sia IL Mondo.
Anche io lo penso del mio.
Ogni conducente crede che sia egli stesso a decretare chi possa o non possa far parte di quel mondo. Anche io lo credo del mio.
Io credo che le macchinine colorate al di là della mia siano una semplice appendice del mio personalissimo mondo.
Anche loro penseranno lo stesso di me.
È questo che mi fa incazzare fino a farmi imperlare le mani di minuscole goccioline di sudore.
Poi penso:
“loro per me sono sostituibili, quindi, se al posto loro ci fosse, che ne so, un secchio dell’immondizia, a me non cambierebbe nulla.”
“anche io posso essere sostituito, ma non è questo il punto, se loro non esistessero, per me non ci sarebbe differenza, ma loro, i non-essenti, non potrebbero oggettivarmi rendendomi fungibile.”
Ergo: se uccido chi non fa parte del mio mondo, il mio diventa l’unico mondo, IL Mondo.
Mmm… ho una mazza da baseball nel bagagliaio, il traffico non si decongestiona, la mattinata è iniziata male, ma sì, io vado a spaccare qualche testa!