
Premessa.
Raccontino ispirato da una frase letta su un manifesto: hai mai pensato di suicidarti dallo studio del tuo psicologo?
Tic, tac…tic, tac…sessanta battute al minuto per l’orologio da parete posto nell’anticamera dell’ufficio della dottoressa Stuart.
Stephen lo guardava quasi in trance, a tratti infastidito da quel suono che si perdeva nel riverbero naturale della stanza, abbastanza spoglia, con qualche pianta agli angoli, mura candide color acqua marina ed un tavolinetto moderno, proprio al centro, che ospitava varie riviste per passare il tempo.
Ore 18:00, la dottoressa è solitamente puntuale, ed infatti, un minuto dopo la porta si aprì e lasciò sfilare il cliente precedente, anche se sarebbe più opportuno parlare di paziente.
Usciva con aria soddisfatta, la classica madre di famiglia, senza grilli per la testa e con troppi panni da stirare.
Stephen la guardava e cercava di indovinare il suo problema: depressione? Sicuramente. Forse una piccola mania di persecuzione e stati d’ansia accentuati.
-Beh, sono i piccoli prezzi da pagare per far parte di una società civilmente evoluta- pensò. Quindici gocce di Prozac, una pasticca di Fluoxetina e passa la paura.
Con fare sicuro il ragazzo si alzò, preparandosi alla sua ora di confessioni.
Quel giorno, però, Stephen aveva una strana espressione, troppo calmo, quasi assente, sguardo basso e passo lento.
La dottoressa, salutandolo, notò certamente tutte quelle cose, ma senza darci troppo peso.
“Allora, Stephen, come è andata questa settimana?”
Nessuna risposta.
Il ragazzo guardava le proprie mani fare impensabili giochi geometrici al limite del contorsionismo, nessuna smorfia, non un sospiro.
“Stephen, tutto bene?”
Nessuna risposta.
Ora cercava chissà quale illuminante scoperta nelle punte delle sue scarpe, una paio di Converse All Star bianche, sporche e segnate da migliaia di passi.
“Stephen, è successo qualcosa? Vuoi parlarne?”
Nessuna risposta.
Il giovane sollevò semplicemente lo sguardo, la guardava dolcemente, ma con indolenza.
Con fare fermo si alzò dalla sedia e si apprestò alla finestra.
Una finestra che dava su cumuli di grattacieli, case e strade fumanti. Una piccola finestra al ventiquattresimo piano di un palazzo nel pieno centro di New York.
Senza troppi indugi, la aprì e, nello stupore della dottoressa, la attraversò per sedersi sul cornicione. Guardò giù, senza dire una parola. Si limitava a sentire milioni di automobili produrre un frastuono impossibile, sentiva il vento fresco portare l’odore degli hot dogs della quinta strada, un odore quasi acre, caldo, e pensava, in silenzio.
Kate, questo è il nome della dottoressa, si alzò con calma e, rimanendo nella stanza, si affacciò per parlare con Stephen:
“Senti, qualunque cosa sia, possiamo risolverla, sono qui per questo.”
“No non si può fare niente, sono stufo…”
“Stufo di cosa?”
“Stufo di soffrire, di essere di malumore, di svegliarmi e trovare ancora fresche le lacrime che ho versato prima di addormentarmi, di guardarmi intorno e non trovare nessuno, di sentirmi solo anche in mezzo alla folla, di pensare che ho fallito, che ho bruciato le occasioni che mi sono state date dalla vita... stufo di avere paura, di non farcela, di non essere amato.”
“Capisco, e pensi che buttandoti la cosa possa giovare?”
“Beh, se sei morto non puoi soffrire”
“Questo è vero, ma a me non ci pensi?”
La dottoressa disse quella frase in un modo diverso dal tono al quale era abituato Stephen. Era improvvisamente più caldo, familiare, dolce, sincero. Il tono di voce di una semplice ragazza, ed è così che ora lei appariva, una semplice ragazza di trentacinque anni, capelli castani lunghi e mossi che cadevano leggeri sulle spalle delicate. Un viso tondo, naso piccolo, occhi espressivi, vivi. Era, d’un tratto, umana e libera da qualsiasi possibilità di classificazione.
“Che significa – A me non ci pensi - ?”
La dottoressa uscì dalla finestra e si sedette accanto a lui, il vento le faceva svolazzare i capelli, inebriandolo del suo profumo, delicato e femminile.
“Sai, se tu morissi, credo che morirei anche io”
“Co…”
“Schhhh” fece Kate mettendogli un dito sulle labbra per zittirlo.
“A volte è tutto così semplice, senza troppi problemi troppi perché…a volte capita che una ragazza si innamori di un ragazzo. Un ragazzo sensibile, con piccoli problemi, ma capace di dare tanto amore, lo stesso amore che io vorrei donarti.”
Lui la guardò stupito, ma non ebbe il tempo di fare, il tempo di dire.
Lei lo prese, si avvicino e lo baciò.
Fu un bacio lungo, aveva la passione di un temporale estivo, la grazia dell’aurora.
Si guardarono, sorrisero.
Rimasero a lungo sul cornicione, a guardarsi, baciarsi, accarezzarsi, e solo quando il sole tramontò decisero di rientrare e di continuare a vivere.
Insieme.